domenica 3 ottobre 2010

2

Varcata la soglia furono sufficienti due passi a farmi girare la testa. Sentivo il cuore massacrarmi il petto.
  «Stai bene?». Scattò in piedi non appena mi vide sulla porta.
  «No, non è nulla», dissi in fretta. Sentivo i nervi a fior di pelle. La tensione e il nervosismo mi avevano fatto calare la pressione sanguigna, sentivo che le gambe stavano per cedere.
  Non ero riuscita a convincerlo. Mi si avvicinò e dopo avermi afferrata da sotto il braccio mi portò sulla poltrona dalla quale si era appena alzato.
  «Oddio, scusami!», dissi mentre mi aiutava con estrema delicatezza. La fronte mi si riempì di goccioline di sudore.
  «Non preoccuparti, è solo un giramento di testa». Mi appoggiò alla poltrona e si inginocchiò di fronte a me.
  «Vuoi un po’ d’acqua?». chiese lui nervoso.
  Non ci credevo! Solo a me poteva capitare una cosa del genere. Svenire dall’emozione.
  «Non preoccuparti». Per dargli la prova che mi stavo riprendendo tentai di tirarmi su e mettermi diritta. Neanche stavolta sembrava molto convinto che stessi meglio ma riuscivo solo a pensare che avevo il volto tutto sudato e che dovevo sembrare davvero un stupida imbranata.
  «Non mi hai detto come ti chiami», dissi per distrarlo.
  Lui si alzò e andò vicino alla scrivania per prendere una delle sedie. Questo diversivo mi diede il tempo di asciugarmi la fronte con il braccio. Un ottimo diversivo pensai.
   «Mi chiamo Luca». Sistemò la sedia di fronte a me e si sedette.
  Lo guardai ancora stranita ma riuscii a dire, nonostante la saliva azzerata, «E il cognome?».
  Sorrise. «Cordioli, Luca Cordioli».
  «Allora», mi guardò ancora sorridente. «Cosa hai detto alla nonna e alla mamma?».
  Cercai di fare chiarezza tra le mie idee. Non riuscivo a ricordare che bugia avevo rifilato loro e il suo sorridermi mi annebbiava ancora di più la mente.
  «Sei sicura che qui non ci troveranno?».
  Dovevo stare attenta. L’unica cosa che mi rimbalzava in mente era che mi aveva detto che non frequentava feste come questa.
  «Hai ripreso colore», non appena lo disse mi toccò con le dita affusolate la guancia. Ebbi un fremito!
  «Scusami», si affrettò a dire. «Non volevo».
  Per cercare di riprendermi dall’ennesima figuraccia che l’istinto mi aveva procurato tentai di rispondere alle sue domande. «La mamma e la nonna non vengono mai qui». Parlavo guardando il nodo perfetto del suo papillon.
  «Come sapevi di questa stanza?».
  Mi ero già fregata con le mie mani. Soppesare le parole non era servito a nulla, la domanda fatidica mi veniva già rivolta.
  «Questo è lo studio di mio nonno». Biascicai piano ancora incapace di guardarlo negli occhi.
  «Lo studio di tuo nonno?». Ero sicura, anche se non gli guardavo il volto, che le sue sopracciglia erano schizzate in alto come due proiettili.
  «Sì, il castello appartiene alla mia famiglia».
  Mi mise la mano sotto il mento e con leggerezza mi costrinse ad incrociare i suoi occhi con i miei.
  «Della tua famiglia», sottolineo con le labbra allungate in un sorriso.
  Annuii con un espressione di convenienza.
  Rise divertito. «Altre sorprese?».
  Decisi di cogliere la palla al balzo. «Di solito io vengo qui quando una festa mi annoia». Ripresi a guardare in basso.
  «Guardami negli occhi», mi sussurrò a mezza voce.
  Più che guardarlo, non appena finì di parlare lo fissai con le pupille sgranate. Mi aveva sorpresa.
  Annuì col capo. «Continua».
  «L’unica persona che potrebbe venire è  mio nonno o mio padre alla fine della serata».
  Sorrise con un espressione beata in volto. «E queste feste quando finiscono di solito?».
  «Mai tornata a casa prima delle tre».
  Apparve una fila perfetta di denti bianchi. «Bene allora!»
  Si allontanò un attimo per poi riavvicinarsi e chiedermi. «Lo so che è da maleducati ma…».
  Anch’io mi avvicinai al suo volto.
  «Sei molto ricca?».
  Quasi saltai sulla sedia. «I miei sono ricchi».
  Piegò la testa e annui divertito. «Bella risposta».
  «Come mai la mamma e la nonna non volevano che ballassi con me?».
  Non volevo fare la figura dell’idiota e raccontargli tutto, dovevo glissare almeno su questo argomento.
  «Credo sapessero che non eri stato invitato».
  «Tua nonna ricorda tutti quelli invitati alle sue feste?». Mi guardava incredulo.
  «Si, lei e la mamma hanno una memoria da elefante per quanto riguarda gli invitati».
  «Ed è un problema se balli con uno sconosciuto?».
  Stavolta fui io a sorridergli. «Si! Per loro è decisamente un problema».
  «Bene! Non voglio metterti nei guai, se vuoi posso sgattaiolare fuori…».
  «Sono già nei guai!», l’affermazione mi uscì molto meno languida di quanto avessi voluto ma almeno un sorrisetto riapparve sulle sue labbra.
  «Allora, posso farti un'altra domanda?».
  Mi misi più comoda sulla sedia è annuii.
  «Quanti anni hai?», chiese in tono serio.
  Per il nervoso mi morsi il labbro. «Tu quanti ne hai?», dissi per prendere un po’ di tempo.
  Si sistemò i capelli con un mezzo sorriso sulle labbra, «Io ne ho ventitre. Su avanti, tu quanti ne hai? Ventuno? Ventidue?».
  Merda nera! Sei anni di differenza, gli sarebbe preso un colpo. Dovevo immaginarmelo che la mia sfiga non finisce mai. Sembrava più grande di tutti i miei compagni di classe e di tutti i ragazzi che le arpie mi presentavano ma con i miei diciassette lo avrei fatto scappare.
  «Quest’anno ne farò diciotto», sorrisi mentre pronunciavo quelle parole.
  La sua reazione fu quella che avevo previsto. La sua espressione passò dal sorpreso al divertito mentre dentro di me pregavo che non si mettesse a ridere.
  «Hai diciassette anni…», non ci credeva, «Tu hai diciassette anni!».
  «Sì!», dissi contrita, «È il vestito che mi fa più grande… se vuoi andartene non mi offendo».
  Era meglio non illudersi che un ragazzo ventitreenne bello come un dio perdesse il suo tempo con una liceale vergine e mezza sfigata.
  «Cosa ti fa pensare che voglia andarmene?», disse con uno sguardo molto contrariato.
  Mi affrettai  a rispondere, «Beh, io vado ancora a scuola e tu sei più grande di me».
  «Più grande!», mi guardava fisso negli occhi mentre parlava, «Ti sembro troppo vecchio per farti la corte?».
  Mi stava facendo la corte? Le guance dovevano essersi colorate perché le sentivo ardere.
  «Forse ho esagerato, sei diventata dello stesso colore della sedia», disse mordendosi le labbra per soffocare una risata.
  Ero seduta sulla sedia preferita del nonno, quella da lettura. Naturalmente era quella che anch’io  prediligevo per le mie serate di “divertimento” da festa mal riuscita. Lo studio del nonno era la stanza che più mi piaceva di tutto il castello. Le pareti dipinte di verde e il soffitto affrescato mi facevano sentire come una principessa da salvare. I mobili erano tutti antichissimi, appartenevano al mobilio originale del castello. Quattro librerie di massiccio ebano con eleganti decorazioni, tutte stracolme di libri. Il nonno era famoso per la sua collezione di manoscritti rari e ogni anno professori universitari, studiosi e laureandi chiedevano di poter visionare alcuni dei suoi pezzi più introvabili. Lui non lo concedeva mai a nessuno, solo noi due avevamo la possibilità di leggerli, osservarli e studiarli in qualunque momento. Era felicissimo che io avessi la sua stessa passione per la lettura, tanto da avermi detto che la sua collezione e tutto ciò che era contenuto nello studio sarebbero andati direttamente a me e non prima a mio padre. L’aveva scritto nel suo testamento.
  D’un tratto un rumore vicino alla porta ci fece uscire da quel momento di silenzio imbarazzato. Entrambi ci precipitammo per vedere chi fosse. Misi la mano sulla maniglia e lentamente aprii.
  La sala era molto buia ma riuscivo ad osservare ogni angolo fino alla scala abbastanza chiaramente. Non c’era nessuno. Probabilmente un po’ di vento doveva aver fatto scricchiolare qualche finestra.
 Mi affrettai a richiuderla, la luce che proveniva dallo studio illuminava l’androne delle scale. Qualcuno poteva notarla. Mentre accompagnavo la porta questa iniziò a scricchiolare e lui mise la sua mano sulla mia per farmi chiudere più lentamente. Lo guardavo, non ne potevo fare a meno. La sua bellezza mi faceva dimenticare la buona educazione e mi perdevo a fissarlo. Dopo che mi aveva chiesto di guardarlo negli occhi non avevo perso un minuto per squadrarlo di continuo. Non riuscivo a far star calmo il cuore.
  Anche lui mi guardava con attenzione mentre lo fissavo attonita, incapace di qualunque gesto se non fissare la perfezione del suo volto.
  Era molto più alto di me. Il fisico atletico e slanciato si  notava benissimo sotto lo smoking nero. La mascella volitiva e il naso perfettamente diritto mi ricordavano la statua di lucifero vista in una chiesa in Belgio durante una gita scolastica.
  Forse lui era li per tentarmi. Faceva dire bugie ad una ragazzina che non aveva mai mentito in vita sua. Con lo sguardo le faceva desiderare cose assai peccaminose e mai provate prima. Il suo corpo riusciva ad infuocare e a riempirle la mente di una tale bramosia di lussuria che nessun altro era mai riuscito, anche solo lontanamente, a suscitare.
  Ero spaventata da me stessa. Le mie reazioni mi terrorizzavano. Ero certa che a qualunque cosa mi avesse chiesto non avrebbe ricevuto una risposta negativa.
  Non capivo cosa mi stesse succedendo. Ormai ero del tutto al di fuori da ogni controllo.
  Stavamo ancora impalati ad osservarci quando lui ruppe  il silenzio.
  «Di cosa stavamo parlando?».
  Tornò al suo posto con i mie occhi fissi sulla schiena.
  «Che scuola frequenti?».
  Mentre mi sedevo risposi automaticamente, «Il Maffei».
  «Come mai hai scelto il classico?».
  Corrugai le labbra, «Perché odio la matematica!».
  Continuai, «Tu che scuola hai fatto?».
  «Ho fatto il liceo scientifico ma ora studio pittura all’accademia».
  Nel momento in cui disse la parola “accademia” pensai al sopracciglio inarcato di mia madre se mai avesse saputo che mi stavo innamorando di un artista spiantato o al fatto che mia nonna fosse l’unica persona sulla faccia della terra a ritenere che la parola “accademia” faccia rima con “fannullone”.
  «Sei all’ultimo anno, giusto?».
  Feci su e giù con la testa consapevole della domanda che stava per seguire.
  «Cosa vuoi fare dopo il diploma?».
  «Non lo so», dissi in fretta.
  «I tuoi cosa vogliono che faccia?».
  Aveva colpito di nuovo nel segno. Secondo il pensiero di mio padre avevo insistito tanto per frequentare il liceo classico perché volevo laurearmi in giurisprudenza e lavorare con lui nel suo studio legale. Non aveva mai espresso ad alta voce questo suo desiderio ma sapevo che ci sperava. Per la mamma e la nonna un diploma valeva l’altro tanto dovevo sposarmi e fare figli. Secondo le donne della mia famiglia se hai la vagina la tua massima ambizione deve essere sposare un uomo ricco che ti copra di roba costosissima e che ti faccia sempre scegliere il ristorante.
  L’unico membro della famiglia a conoscere le mie vere aspirazioni era il nonno. Era stato l’unico a darmi abbastanza fiducia da farmi confidare apertamente su come volevo che fosse il mio futuro.
  Neanche ad Emma, la mia migliore amica, avevo avuto il coraggio di raccontare “quello che volevo fare da grande”.
  Del resto se la tua ambizione è diventare scrittrice eviti di urlarlo ai quattro venti e farti coglionare a vita se fallisci.
  Il nonno assecondava le mie passioni. Non appena gli confessai il mio segreto iniziò a regalarmi libri ad ogni occasione. Mi fece pubblicare su diverse riviste letterarie alcuni racconti brevi e aveva iniziato a ricercare la miglior facoltà di lettere italiana.
  Fortunatamente non credevo che i miei sarebbero stati contrari se mi fossi laureata in lettere e gli avessi chiesto di mandarmi alla scuola Holden di Torino.
  «Mio Padre credo voglia che mi iscriva a giurisprudenza ma io preferirei lettere», mi resi conto che mi tremava la voce.
  Mi guardò con un espressione beffarda. «Ma tu cosa vuoi fare? L’insegnante?»
  Avevo la pelle d’oca solo all’idea.
  «Non sei mai stato in un liceo pubblico ultimamente?». Tentai di prenderlo in giro.
  Sorrise. «Allora cosa vuoi fare?». Era molto interessato.
  Non sapevo ancora se potevo fidarmi. Raccontare i mie sogni ad uno sconosciuto mi sembrava abbastanza sciocco. Cosa avrebbe detto della mia folle ambizione? Mi avrebbe derisa?
  «Vorrei diventare scrittrice», l’avevo detto tutto d’un fiato ed ora aspettavo di vedere cosa dicesse immersa nella vergogna.
  «Bene!». Disse mentre tentavo di decifrare la sua espressione. «Dovresti essere più sicura però».
  Non sapevo cosa dirgli. Avevo sempre immaginato che le prime espressioni che avrei visto sui volti delle persone a cui avrei raccontato i miei sogni sarebbero state lo stupore e l’incredulità.
  Nei suoi occhi invece c’era un espressione strana. Sembrava che fosse orgoglioso che puntassi al massimo.
  «Avevo paura…», aggiunse sorridente, «Che mi avresti detto che volevi fare la velina o la showgirl» .
  Mi squadrò e puntualizzò, «Per via del vestito!».
  Risi con lui portandomi le mani sul corpetto.
  In effetti con quel vestito mia madre aveva esagerato. Avevo d’avvero l’aspetto di una velina in trasferta.
  «Sei sempre vissuta a Verona?». Cambiò discorso.
  «Sì sono sempre..», ci pensai su un attimo, «No!».
  Ogni volta dimenticavo di aver vissuto a Mantova per due lunghissimi anni.
  «Ho vissuto da sola a Mantova durante gli anni del ginnasio».
  «Da sola?», mi guardò sorpreso.
  Mi corressi subito. «Non ero davvero sola. Ero in un collegio».
  «Intendevi senza la tua famiglia?».
  «Si! Esatto, senza la mia famiglia». Ero diventata incapace di parlare.
  «Ti piaceva Mantova?».
  Ci riflettei anche se sapevo benissimo cosa rispondere. «È una città stupenda».
  «Anche se non uscivamo spesso da quel posto», mi affrettai a precisare.
  «Scusami, ma come funziona in collegio?».
  Rimasi colpita dalla domanda. «Bé, studi dall’alba al tramonto».
  «Davvero?». Non ci credeva.
  «Allora, ci si sveglia alle sette e  dalle otto a l’una si fa lezione come in una scuola normale».
  «Poi?», chiese curioso.
  «Pausa fino alle tre e i compiti fino alle sei».
  Corrugò la fronte stranito.
  «Dalle sei in poi si possono fare diverse attività: ginnastica, nuoto, recitazione, dizione, canto, musica o qualsiasi altra cosa si possa fare in un posto al chiuso».
  «E a che ora si dormiva?».
  «Alle dieci e trenta a nanna!».
  Soffoco un sorriso. «Tutte ragazze?».
  Sorrisi anch’io mentre rispondevo. «Sì, dalla prima all’ultima persona nell’edificio».
  «E i tuoi non li vedevi mai?».
  Nessuno mi aveva mai chiesto una cosa del genere. Davano tutti per scontato che ci vedessimo per le feste comandate.
  «La domenica si alternavano mamma e papà con nonno e nonna. Mi portavano al  ristorante e poi una lunga passeggiata».
  «E le feste?».
  «Tornavo per le feste!».
  «Oh! Non avevo capito. La domenica venivano a trovarti loro da Verona?».
  Annui leggermente mentre pensavo a come poteva essere strano per lui sentire un discorso del genere.
  «Ok!».
  «Ti sembra strano?».
  Mi guardò sereno. «No, forse e un po’…».
  «Sì è strano!», dissi ridendo.
  Ora fu lui ad annuire divertito.
  «In quale posto sei mai andata oltre Verona e Mantova?».
  Mi piaceva il tono della sua voce. Era molto soave, sembrava musica e mi incantava come tutto il resto.
  «Sono stata molte volte a Roma e a Milano. Spesso andiamo in vacanza in posti esotici».
  «Dove?».
  Speravo non me lo chiedesse ma era impossibile che non lo facesse. Se non era scappato quando gli avevo detto che il castello era dei miei nonni potevo conservare la speranza che non si impressionasse per tutto il resto.
  «Bali, Bora Bora, Maui, Nevis, Surat Thani, Sharm El Sheikh e un sacco di volte alle Mauritius», purtroppo il suo sguardo era stranito, «Cosa c’è?». Chiesi coraggiosa.
  Fece un sospiro. «Niente! Sono solo un po’ sorpreso».
  «Sorpreso». Gli feci eco.
  Forse avrei dovuto tenere la bocca chiusa. Potevano impressionarlo quei posti.
  Sorrise un attimo e poi si sporse verso di me. «Mete da milionari!».
  Feci un sorriso di convenienza.
  «Vivi in un castello!».
  Sgranai gli occhi. «Non è casa mia!».
  «Non preoccuparti! È come parlare con una testa coronata».
  Sorrisi nervosa, voleva prendermi in giro.
  «Se hai un isola nel mediterraneo come la Casiraghi giuro che vado via». Disse ridendo.
  «Spiritoso!».
  «Almeno uno yacht che porta il tuo nome ce lo’avete?».
  Risi. «Eufedia».
  «Come?». Chiese lui.
  «Il nome del nostro yacht».
  Rimase di sale.
  «La barca a vela del nonno porta il mio nome».
  Ora era sotto shock.
  «Io scherzavo!». Si affrettò a precisare lui.
  «Lo avevo capito», poi aggiunsi per dargli il colpo finale, «Comunque lo yacht di famigli assomigli molto al Pacha III».
  Alzò le sopracciglia. «Il Pacha III?».
  Ridendo gli spiegai la mia battuta che credevo avrebbe colto senza bisogno di aiuti. «Sì, il Pacha III. Lo yacht di Caroline di Monaco».
  «Oh!», esclamo lui sorridente.
  Abbassai gli occhi per un istante divertita del suo modo di reagire. «Tu, dove sei stato?».
  Alzò lo sguardo per riordinare le idee. «Dopo la fine della scuola superiore ho fatto un viaggio in giro per l’Europa…».
  «Davvero!».
  «Sì! Per tutta l’estate».
  Ero molto incuriosita. «Dove sei stato?».
  «Sono stato a Salisburgo, Monaco, Berlino, Amburgo, Copenhagen e poi… poi sono finiti i soldi».
  Aveva fatto quello che avrei voluto fare io. Odiavo stare in quei posti esotici dove non si esce mai dal resort. Prendere il sole per tutto il giorno o fare il bagno, per quanto fosse paradisiaco il posto era di una noia mortale. Solo una volta sono riuscita a convincere i miei a fare un escursione alle vere Mauritius.
  «Sei andato all’avventura!». Ero affascinata, «Sei partito solo?».
  «Sì, era qualcosa che dovevo fare per me stesso senza nessuno fra i piedi».
  Fui contenta che non avesse detto che si era portato dietro una ragazza.
  «Come è stato vivere senza rete?».
  Si morse il labbro, «Non è stato difficile sopravvivere. Io sono partito con mille euro».
  «Quanto sono durati?».
  Portò gli occhi verso destra cercando di ricordare. «Sono arrivato ad Amburgo con meno di duecento euro in tasca. Di Copenhagen non ho visto molto».
  «Dove dormivi?».
  «Ho dormito negli ostelli della gioventù e due volte su una panchina». Parlava con un mezzo sorriso sulle labbra.
  Su una panchina! Immaginai me stessa in una situazione del genere, non credevo che sarei mai stata capace di dormire all’aperto, in una città straniera e in un paese dove non conosco nessuno. Sarei morta dalla paura.
«Io non potrei mai farlo». Ormai ero completamente persa nei suoi occhi, «Come è stato stare li all’aperto senza nessuno che conoscevi?».
  «Beh! Decisamente è un esperienza liberatoria!».
  «Liberatoria?», ripetei con un evidente tono di incredulità nella voce.
  «Sì! Può farti un po’ paura ma è una sensazione che ti fa sentire completamente libero».
  Ero completamente affascinata da lui. Continuavo ad immaginarmelo con le braccia dietro la testa disteso su una panchina di un parco mentre dormiva con il viso illuminato dalle stelle.
  «Cosa ti ha colpito di più?».
  «Forse», ci pensò un istante, «Non credo che avessi bisogno di contemplare quadri nei musei o di rimanere estasiato da uno scorcio suggestivo in qualche angolo cittadino del nord Europa. I momenti che mi sono rimasti più impressi sono quelli passati in treno».
  Ancora una volta mi sorprendeva. «I viaggi in treno».
  «Sì. Credo che più che viaggiare volessi sentirmi spensierato, non ho un ottimo rapporto con i miei, volevo sentirmi libero».
  «Ti capisco», mormorai cupa.
  «Non hai un bel rapporto con i tuoi?», chiese.
  Non volevo raccontargli proprio tutto. Aveva capito certamente di quanto fossero “iperprotettive” mia nonna e la mamma ma di raccontargli nel dettaglio anche di papà mi sembrava troppo. Cercai le parole giuste per rispondergli ma mentre pensavo mi fece un'altra domanda.
  «Quindi questo è lo studio del nonno?». Si era reso conto che la domanda sui miei mi aveva messo in difficoltà.
  «Già!», poi pensai a cosa potevo dirgli per sorprenderlo.
  «È stupendo qui!».
  «Sai il nonno mi ha detto che tutto quello che è in questa stanza andrà direttamente a me e non a mio padre quando lui…».
  Luca increspò le labbra. «…Morirà».
   «Esatto!». Mi ritenevo incapace di dire quella parola fui contenta che l’avesse detta lui.
  «Sai il nonno è un famoso collezionista di libri rari, in questa stanza sono concentrati libri per un valore di…».
  Lui sorrise. «Brava! Meglio che ti fermi!».
  Ridemmo entrambi divertiti da quel piccolo momento di imbarazzo comune.
  Mi affrettai a trovare un'altra domanda da fargli.
  «Parlami dei tuoi».
  «Mio padre è professore di matematica in una scuola media e mia madre lavora come grafica impaginatrice per una piccola tipografia», poi guardò verso la finestra e disse, «Non vado d’accordo solo con lui, sai com’è».
  Purtroppo sapevo benissimo come si poteva sentire. Il mio era il padre più protettivo del mondo. Era convinto che se avesse continuato a trattarmi come una bambina lo sarei rimasta per sempre.
  «Per caso vuole spingerti nella direzione “giusta”?», azzardai.
  «Diciamo che vuole che non commetta i suoi stessi errori e tenta di impormi ciò che vuole lui», rise fra sé, «Quando gli dissi che volevo fare l’accademia…».
  «Litigaste?».
  Rise. «Sì, diciamo cosi».
  Forse anche lui stava omettendo qualche particolare che riteneva imbarazzante.
  Si era un po’ intristito ma io morivo dalla curiosità. «Cosa voleva che facessi?».
  «Ero il più bravo della mia classe e voleva che mi laureassi in economia alla Bocconi», mi lanciò un occhiata da complice, «Ma il giorno dopo il mio esame orale ero già in treno per Salisburgo». Tornò serio. «Fu mia madre a farlo calmare e a fargli digerire il boccone amaro».
  «Allora poi gli è passata?».
  «Diciamo che…», rise, «No! Non gli è passata».
  Poi mi guardò negli occhi e disse, «Credi che avrai la stessa sorte che ho avuto io?».
  Mi prese in castagna, «Probabilmente sarà ancora più problematica la questione».
  «L’unica consolazione…», mi rassicurò lui, «È che alla fine se ne faranno una ragione».
  Lo guardai con un sorriso ironico, «Tu non conosci mia madre».
  «Perché dici cosi?». La mia famiglia lo incuriosiva.
  «Non ci siamo mai capite».
  «Che strano!», disse portandosi un dito verso le labbra.
  «Ho più cose in comune con te che con tutti i miei coetanei», rise divertito, «Chi avrebbe pensato di avere tanto in comune con una ragazzina».
  Risi anch’io della sua battuta ma con un tono meno divertito. Forse mi vedeva come una bambinona?
  «Ehi!», disse dandomi un colpetto sulla mano, «Scherzavo!».
  Nonostante il tentativo di trattenermi mi illuminai in un sorriso alla Berlusconi.
  «Io però non ho un bel rapporto nemmeno con mio padre», dissi per riprendere il discorso.
  Si morse le labbra per non ridere, «Di preciso c’è qualcuno con il tuo stesso Dna con cui vai d’accordo? Magari un fratello? Una zia eccentrica?».
  «Sono figlia unica e lo sono anche mio padre e mia madre».
  Abbassò lo sguardo e piano il silenzio si fece spazio tra i secondi. Sentivo nell’aria che qualcosa stava per accadere. Risentii quei formicolii che avevo avuto quando mi era vicinissimo accanto alla porta. Stava per accadere! Il mio primo vero bacio.
  Ero li impalata mentre lui si avvicinava. Non riuscivo a muovermi, ero diventata un corpo comune con la sedia. I pensieri vorticosi che avevo fino ad un istante prima si fermarono lasciando spazio solo ai battiti del mio cuore.
  Mi alzai piano quando mi accorsi che mi stava porgendo la mano. La afferrai e mi resi subito conto di quanto la mia fosse sudata rispetto alla sua. Tentai di non pensarci e mi concentrai per tenere ferme le gambe che ormai tremavano in maniera impercettibile.
  Sentii i suoi muscoli sul mio corpo quando mi avvicinò a sé e smisi di respirare.
  Iniziò ad avvicinarsi. Sentivo le sue braccia stringersi su di me e d’improvviso mi prese l’impazienza di sentirlo sulle mie labbra. La paura scomparve e il desiderio di toccarlo divenne la mia unica ragione d’esistere.
  Ma prima che potessimo sfiorarci bussarono. Sperai fosse uno dei ragazzi del catering ma la porta si aprì con quello scricchiolio che nei film dell’orrore è presagio di guai.
  «Elena ti ho portato un po’ da mangiare», sentii la voce del nonno e vidi il piatto stracolmo di leccornie che preannunciava il suo ingresso.
  «Non sei sola, vedo», il tono era calmo. Mi aspettavo che cadesse a terra stecchito, invece sembrava che la presenza di Luca non gli facesse né caldo né freddo.
  «No», dissi leggermente in imbarazzo, «Lui è Luca, Luca lui è nonno Pietro».
  Si strinsero la mano educatamente. Il nonno non sembrava affatto infastidito dal fatto che avevo portato un ragazzo nel suo studio.
  «Forse è meglio che vi lasci soli», posò il piatto vicino all’interfono e si defilò.
  Prima di chiudesi la porta alle spalle non poté fare a meno di farmi l’occhiolino. Quel ragazzo gli piaceva! Sperai che lui non se ne fosse accorto.
  «Sembra che io piaccia a tuo nonno». Alzò lo sguardo in cerca del mio viso.
  Ero stata sfortunata, quando lo guardai stava tentando di trattenere le risate e non ci riusciva per nulla.
  Quella splendida risata mi fece risentire le ginocchia leggere e con tutta la grazia della ragazza più goffa del mondo tornai a sedermi.
  Lo osservavo con la coda dell’occhio. Se ne stava vicino alla libreria a leggere i dorsi degli antichi libri quasi del tutto scoloriti dal tempo.
  «Trovato qualche titolo interessante?», dissi svelta per darmi un tono.
  Passò oltre la mia poltrona e si mise ad osservare il quadro di caccia appeso sulla parete alle mie spalle.
  «Anche questi quadri andranno a te?».
  Mi alzai e mi misi al suo fianco. Trascinavo i piedi, dovevo ancora riprendermi dall’ultima volta che eravamo stati vicini.
  «Francamente non mi sono mai piaciuti».
  «Non ti piace la caccia?», mi guardò ancora con quello sguardo penetrante e curioso.
  «Decisamente no!».
  «Sono solo quadri!», aggiunse lui.
  Per divertirlo dissi la verità. «Mi terrorizzano i cavalli».
  «Come?».
  «Mi fanno paura!», dissi con un tono infantile.
  «Perché?».
  «Quando ero bambina mi hanno regalato un cavallo».
  Alzò un sopraccigli. «Un cavallo vero? Non uno di quelli di Barbie?».
  «Avevo anche quello di Barbie ma quello di cui ti parlo era vivo».
  Annuii in attesa del racconto.
  «Mi fece cadere e mia madre…».
  Lui iniziò ridere a crepapelle.
  «Smettila, non è carino».
  «Mi stai dicendo che vi siete mangiati il tuo pony?».
  Mi vergognavo a raccontare quella storia ma era la verità. «Non lo abbiamo mangiato!».
  «Allora cosa?», disse lui ancora ridendo.
  «L’abbiamo mandato al macello e basta!».
  Lui riprese a ridere ma stavolta in mia compagnia.
  «Ed è per questo che non ti piacciono questi quadri?».
  «Sì, ogni volta che vedo questi cavalli mi viene in mente il mio povero animaletto condannato a morte per colpa mia».
  «Volevo chiederti se con il nonno vai d’accordo?».
  Mi strinsi nelle spalle. «Certo! Altrimenti perché mi regalerebbe quadri e libri?».
  Rise. «Quindi ti sta comprando?».
  «No! Io direi più corrompendo!».
  «Beh! Sei l’unica adolescente che si fa corrompere con dei vecchi libri e non con un nuovissimo paio di scarpe».
  Lo guardai di traverso. «Sono gusti!».
  «Capisco benissimo perché ti piace stare qui», esclamò lui.
  «Piace anche a te?».
  «Si, piace anche a me».
  «Mi piace soprattutto che sia nella torre, mi sento come una principessa».
  «Già, Raperonzolo!».
  Ridemmo insieme.
  «No, in realtà mi piace perché è un posto tranquillo».
  «Già. Dà una certa serenità, ti senti al sicuro».
  Aveva capito benissimo come mi sentivo. Era per sentirmi protetta che sgattaiolavo il prima possibile nello studio. Mi sentivo sempre così aggredita da tutte quelle attenzioni che era un immenso sollievo rifugiarsi in un posto dove nessuno mi poteva osservare e criticare.
  La mamma e la nonna non intuivano il mio disagio. Mio padre faceva finta di non vedere il modo in cui si comportavano più per un suo fastidio che per solidarietà al mio. Il nonno era il mio unico complice. Probabilmente se non ci fosse stato lui in quella famiglia di ricchi disadattati sarei finita sul divanetto di uno psichiatra.
  «Quindi non ti piacciono i cavalli e la caccia», riprese il discorso.
  «Sì».
  «Posso darti ragione sulla cacci,a ma sui cavalli…».
  Gli piacevano i cavalli?
  «Sai all’accademia c’è un professore che me ne ha fatti disegnare tantissimi per l’esame di anatomia e sono gli animali più eleganti che esistano».
  Risi. «Con quel testone?».
  Sorrise anche lui. «Perché? Vogliamo discutere dell’odore?».
  «Dio no! Quello proprio no!».
  Si alzò dalla sedia e si avvicinò alla scrivania.
  «Caviale e crostini».
  Mi accigliai per un istante. Avevo ancora fame ma avevo mangiato già troppa di quella roba.
  «Vuoi servirti?».
  Pensai per un istante che probabilmente lui non aveva mangiato dato che non aveva un posto a sedere. Dovevo immolarmi per non farlo mangiare da solo come una maleducata.
  «Ti piace il caviale?».
  Rise. «Si! Non mangio altro».
  «Bene!».
  «In realtà, non l’ho mai mangiato».
  «Allora questa sarà la prima volta». Almeno qualcosa di nuovo anche per lui.
  Mi alzai anch’io e con il cucchiaino d’osso sistemai il caviale sul crostino. Lui osservava l’operazione con attenzione e con il sorriso sulle labbra.
  «Tieni», glielo porsi educatamente.
  Anziché prenderlo con le dita aprì la bocca.
  Sorridente lo imboccai.
  «Allora ti piace?».
  «Sa di pesce».
  «Già», dissi sarcastica.
  «Però e più amaro».
  Annuii. «Ma ti piace?».
  Alzò le sopracciglia. «Mangiabile».
  Ridemmo assieme. Era la prima persona che definiva il caviale “mangiabile”.
  «Di solito viene definito “una prelibatezza”».
  Riprese a sorridermi.
  «Oppure si inizia una lunghissima conversazione sul caviale pressato e su quello fresco».
  «La regina dello Storione!».
  Ridemmo ancora guardandoci reciprocamente.
  La sua risata era così musicale che era un piacere ascoltarla.
  «Posso farti una domanda?». Ritornò serio.
  «Certo».
  «Hai mai portato qualcun altro qui o io sono il primo?».
  Sorrisi imbarazzata. «Sei il primo. Il primo in assoluto». Arrossii non appena finii di parlare.
  Si avvicinò e con la mano mi sfiorò il viso. Chiusi gli occhi e lo sfiorare divento una carezza.
  «Sei bellissima», mi sussurrò all’orecchio.
  Smisi di respirare. Il suo viso si avvicinò lento al mio e proprio un istante prima che le nostre labbra si sfiorassero,  «Elena!», disse mio padre in tono grave.
  Non sapevo cosa fare, ero pietrificata.
  «Mi scusi signor Marchesini», disse Luca in tono rilassato, «Io sono un amico di sua figlia».
  «Che ci fa qui con te?». Quelle parole mi offesero.
  «Papà!».
  Mi guardò arrabbiatissimo. «Perché è qui con te?».
  «È un mio nuovo amico».
  Lo fulminò con lo sguardo ancora più arrabbiato di prima.
  «Ho capito! Ma perché è qui?».
  «Papà!». Stava diventando imbarazzante. Cosa voleva sentirsi dire?
  «Niente! Stavamo solo parlando».
  Luca tentò di riprendere le presentazioni. «Luca Cordioli».
  La mano era sospesa a mezz’aria quando l’espressione di papà divenne di ghiaccio.
  «Ripeti il tuo nome!», ordinò mio padre.
  Non stavamo facendo nulla di male. Perché reagiva cosi?
  «Come scusi?».
  «Tuo padre è Enrico Cordioli?», Luca lo guardava stranito.
  Non capivo più di cosa stesse parlando.
  «Tuo nonno si chiama Gianpaolo?».
  Papà conosceva la sua famiglia?
  «Sì». Rispose Luca.
  «Fuori da casa mia!», urlò.
  «Papà cosa dici?». Era impazzito!
  Mi guardò come se lo avessi pugnalato. «Allontanati da lui!».
  Che cosa stava succedendo?
  «Da quanto tempo lo conosci?», poi aggiunse, «È il tuo ragazzo?».
  Non sapevo cosa fare. Dissi la verità.
  «L’ho incontrato per la prima volta stasera. Papà calmati!», tentai di rassicuralo.
  «Cosa?».
  Ero nei guai!
  «Hai portato un ragazzo appena conosciuto in un posto appartato, cosa ti salta in mente?», il suo viso era paonazzo dalla rabbia.
Dire la verità era stata una pessima idea.
Si avvicinò all’interfono e si portò la cornetta alla bocca, «Sicurezza!».
  «Papà aspetta!».
  «Cosa dovrei aspettare?». Mi guardò come se fossi una poco di buono.
  «Cosa fai? Vuoi farlo arrestare?». Mi aggrappai al suo braccio, stavo per scoppiare in lacrime.
  Luca era calmo, il suo viso non tradiva emozioni. Forse l’unica cosa che poteva trasparire dalla sua espressione era quel briciolo di curiosità negli occhi. Si faceva la stessa domanda che mi stavo ponendo io.
  «Perche vuoi sapere chi sono i suoi?», dissi tutto d’un fiato.
  I bodyguard erano appena entrati, seguiti da mia madre e da mia nonna.
  «Portatelo fuori!», disse puntando il dito contro Luca.
  Lui non si scompose ma io iniziai a piangere.
  Mi buttai contro papà urlando, «Ti prego non farlo arrestare!».
  Mia madre da dietro le sue spalle mi fece un cenno con il capo e seguì i due scimmioni che portavano via quel ragazzo meraviglioso.
  «Avevi detto di non conoscere quel ragazzo», disse la nonna accigliata.
  «È il figlio di Enrico Cordioli».
  Non appena lo disse nonna rimase allibita.
  «Cosa?».
  Si rivolse a me stranita. «Tu lo conosci?».
  «No! Non ho idea di chi sia!».
  «Che ci faceva qui con te?».
  Papà le lanciò un occhiataccia. «Mamma, vai da Caterina».
  «Scusami, questa è ancora casa mia e voglio sapere se una persona non gradita entra senza  il mio permesso», era visibilmente nervosa.
  Quel ragazzo aveva fatto impazzire tutti. 
  «Mamma, ti prego, vai da Caterina».
  «Perché? Lascia che tua moglie se la sbrighi da sola».
  Papà serrò le mascelle ancora più arrabbiato.
  «Basta! Spiegami!», urlai a squarciagola.
  «Tu sei in punizione per una settimana», disse additandomi, «Solo casa e scuola».
  Non riuscivo a capire più nulla. Che c’entrava Luca? Che problema avevano tutti?
  Prima di uscire dalla stanza e di ordinarmi di andare subito a casa con una delle auto blu della festa mi intimò, «Non dovrai più vedere quel ragazzo e non voglio più che ti comporti come una sciocca ingenua!».
  «Ma Papà!», dissi, di nuovo in preda ai singhiozzi.
  «Non una parola di più o ti rispedisco in quel collegio a Mantova. Capito?», il suo tono non ammetteva repliche.
  Con gli occhi che mi bruciavano ripensai ai due anni di ginnasio passati in quel posto orribile e rabbrividii al solo pensiero di tornarci.
  «Su, calmati bambina». La nonna mi prese fra e braccia mente continuavo a piangere.
  «Perché?», sussurrai fra i singhiozzi.
  Se era arrivato alle minacce pesanti doveva essere molto grave l’astio verso la famiglia di Luca.
  Perché papà aveva reagito cosi? Chi sono i Cordioli? Chi è Luca?