domenica 3 ottobre 2010

1

 Durante il viaggio non mi resi conto di quanto papà corresse per arrivare con meno ritardo possibile. Mamma era decisamente alterata e continuava a dirgli di affrettarsi. Era stata colpa mia per quel incredibile ritardo, non avevo nessun intenzione di andare a quell’ennesima festa, ma ogni decisione che riguardava me veniva presa da uno dei miei famigliari. Svoltò bruscamente nel viale d’ingresso addobbato come non mai. Quanto avrei desiderato non dover partecipare a quel party. Guardai fuori dal finestrino tutte le braci che i nonni avevano fatto sistemare per illuminare il viale e il portone principale. Una delle poche cose che mi piaceva del castello dei nonni era che così distanti dalla città le stelle brillavano con il doppio dell’intensità e con il cielo privo di luci artificiali erano stupende. Ormai, la mia famiglia è l’unica a dare delle feste del genere a Verona.
  Un brivido mi percorse la schiena quando scesi dalla macchina, un freddo inatteso per la notte di ognissanti.
  «Stai bene?». Chiese gentilmente papà.
  «», risposi bruscamente.
  Stava per arrivare la parte che odiavo in assoluto. Non appena varcammo il portone una schiera infinita di fotografi iniziò a scattare. Ci posizionammo davanti al cartello pubblicitario e insieme posammo per le foto di rito sul red carpet. Poi arrivarono le domande dei giornalisti locali. Un infinità di banalità venivano dette e ridette ad ogni festa. Non ne potevo più. Per giunta, tutti i giornalisti volevano sapere della mia vita. Tutti i magazine e i quotidiani erano decisi a trasformarmi nella Paris Hilton locale. Chiunque conoscessi non riusciva a capire come mai non volessi abbandonarmi a questo roseo destino. Per molta gente se sei ricca e famosa rientri in una certa categoria, quella “non lavorerò mai”. Puoi avere tutto quello che vuoi e puoi non preoccuparti per il tuo futuro.
  «Andiamo Elena», mi ammonì mamma.
  Era arrabbiata con me, come ogni volta che mi costringeva a fare qualcosa che non volevo assolutamente fare.
  «Spera che non inventino una storia sul nostro ritardo».
  Per mia madre l’apparenza era tutto. La sua frase preferita era “Sorridi e fa’ finta di nulla”.
  L’unica mia consolazione quando andavamo ad una festa al castello era che mia madre avrebbe dovuto fare i conti con mia nonna. Infatti, se lei era la mia spina nel fianco lei era quella di mia nonna. Si erano odiate fin dal primo istante. Mio padre fece scoppiare un tale scandalo quando la sposò incinta di me che i Veronesi ne parlarono per quasi un anno. Per giunta il matrimonio arrivò a tre mesi dalla morte prematura della prima moglie e questo fece sfiatare gli abitanti di questa stupenda cittadina per anni e anni.
  Mi sistemai il vestito non appena entrata nell’atrio e consegnai il soprabito ad una ragazza della mia età che mi squadrò per bene. Sperai che non fosse una studentessa della mia scuola, ricordavo ancora l’incubo del primo giorno.
  Avevo sempre frequentato delle scuole private e dopo la terza media fu deciso di mandarmi a studiare in un collegio privato di Mantova. Tentai per tutta l’estate di non farmi mandare ma a settembre accompagnata da un acquazzone di fine stagione fui condotta da un autista al ginnasio Leone XIII. Fortunatamente venni accolta molto bene. Trovavo rassicurante quell’antico palazzo e l’istruzione privilegiata e senza lacune che vi veniva impartita. Mi abituai velocemente a quella routine e i due anni finirono molto rapidamente.
  Purtroppo il trauma avvenne il primo giorno al Liceo Maffei di Verona. Stupida come ero vidi come una benedizione il ritorno a casa, ma in una scuola pubblica se la ragazza più ricca della città si presenta davanti all’istituto con una Mercedes e un autista in livrea è scontato che non avrà amici. Fu nell’istante in cui feci roteare le gambe e scesi dalla macchina che capii che il mio arrivo non era affatto gradito. Era stato mio padre a decidere di farmi finire le scuole in una pubblica, nonostante il dissenso di tutta la mia famiglia. Voleva che vedessi quanto ero fortunata.
  «Elena», disse nonna con la sua voce stridula alle mie spalle, «Finalmente siete arrivati! Scommetto che la colpa del vostro ritardo è della mamma?».
  «Buonasera nonna», dissi senza risponderle.
  «Vieni, devo presentarti assolutamente qualcuno».
  Questa era un'altra delle cose spiacevoli che capitavano ad ogni festa. Mia nonna era seriamente intenzionata a trovarmi un fidanzato o almeno un cavaliere che mi tenesse compagnia durante la serata. Mi prendeva sottobraccio e mi presentava o ripresentava tutti i ragazzi presenti alla festa. Non solo lei aveva questa ossessione. Anche la mamma avrebbe fatto lo stesso ma presentandomi i suoi preferiti. Nonna optava per i figli di dottori, industriali, politici o professori, mentre mia madre aveva una forte predilezione a presentarmi i figli di giudici o avvocati. Forse pensava ad una futura espansione dello studio legale di papà a livello familiare. Le cose cambiarono improvvisamente da quando compii sedici anni e tornai a Verona. Divenne importante e fondamentale trovarmi un ragazzo, o meglio, che mi trovassero un ragazzo.
  «Elena lui è Andrea Coccini». Mi spinse verso un ragazzo che aveva la mia età ma di venti centimetri più basso di me. «Suo padre è l’assessore all’urbanistica di Bevilacqua». Precisò strizzandomi l’occhio.
  «Piacere», gli dissi stringendogli la mano.
  «Forse più tardi avrete occasione di ballare insieme». Il tono di nonna divenne civettuolo.
  Salutammo educatamente e iniziò a portarmi da un altro ipotetico spasimante.
  Fortunatamente i pettegolezzi sulla famiglia del nanetto erano abbastanza scialbi. «Sai cara, il padre si è fatto portare via dalla concessionaria l’auto della moglie perché aveva dimenticato di pagare le rate». La nonna ci teneva particolarmente a farmi sapere tutte le scabrosità sugli invitati. Di solito mi si avvicinava di punto in bianco, mi elencava le caratteristiche fisiche del soggetto di cui voleva parlarmi e dopo avermi presa sottobraccio iniziava con i pettegolezzi. Questo era il suo comportamento ad ogni festa e mia madre si comportava allo stesso modo, solo che la mamma aveva un briciolo in più di discrezione, mentre la nonna era parecchio spudorata e soprattutto udibile da tutti i presenti.
  Adoravano questo strano gioco. Forse ritenevano che fosse meglio per me che avessi una relazione. Anche la reazione di mio padre a questi modi inusuali mi lasciava sempre un po’ perplessa, faceva spallucce e si girava dall’altra parte. Ma era chiaramente percepibile un disagio, qualcosa nello sguardo. Forse era la classica gelosia paterna che lui cercava di mascherare al meglio.
  «Alessandro lei è mia nipote Elena». Ci avvicinammo ad un ragazzo che aveva bisogno di uno sciampo.
  «Piacere Elena».
  La nonna mi diede un colpetto sulla spalla. «Suo padre è il primario di pediatria dell’ospedale di Verona e lui diventerà medico come i suoi fratelli».
  Il ragazzo sorrise compiaciuto. «Devo ancora finire le superiori signora Marchesini».
  Nonna rise cosi forte che il ragazzo si spaventò. Non si aspettava una risata tanto rumorosa.
  Papà venne verso di noi accompagnato dal padre del ragazzo. «Tesoro!», squittì la nonna. «Lui e il padre di Alessandro, il dottor Michele Bazzani».
  Anche il signore aveva urgente bisogno di uno sciampo. Forse era un qualcosa di ereditario.
  «Che nipote incantevole», disse stringendomi la mano.
  «Stavo appunto presentandole suo figlio».
  «Bene, sono sicuro che mio figlio sarebbe onorato di farle fare qualche ballo signorina».
  La nonna lo guardò felice. Aveva trovato un alleato.
  «Più tardi, tra poco inizia la cena».
  Tutti si guardarono sereni e la nonna iniziò a portarmi da un altro pretendente.
  Poco prima che mi presentasse un ragazzo che mi stava già squadrando il seno da lontano arrivò il nonno.
  «Ciao Elena». Mi abbraccio e la nonna fu costretta a lasciarmi libero il braccio.
  «Pietro ti prego». Lo ammonì lei  mentre mi trascinava via.
  «Rita andiamo, glielo presenti più tardi».
  La nonna incrociò le braccia in segno di protesta ma il nonno fece finta di non vederla e la ignorò.
  «Quanti te ne ha presentati stasera?».
  Mi accostai a lui. «Due ragazzi solamente».
  «Due soltanto!», disse in tono sarcastico. «Ha invitato almeno una decina di aitanti fanciulli stavolta».
  «Davvero?». Solo l’idea di dover fare ancora otto presentazioni per la nonna e chissà quante per la mamma mi faceva davvero ammattire.
  «Andiamo al tavolo, ok?».
  «Ok».
  Quando arrivammo mancavamo solo noi per completare la famiglia. La nonna aveva raggiunto immediatamente la sua postazione di controllo e già era persa nella conversazione con la moglie del sindaco. Mamma parlava con il rettore dell’università e papà parlava animatamente con il sindaco.
  «Vuoi un po’ di antipasto?». Nonno spinse il caviale verso di me.
  Non ero mai stata golosa di quella roba ma la mamma mi aveva già messo due abbondanti cucchiaiate nel piatto. Presi i piccoli blinis ed incominciai a mangiare.
  Mi guardai alle spalle, mi sentivo osservata. Erano tutti seduti ai loro posti. Chi mangiava, chi conversava, ma nessuno mi stava guardando.
  «Elena, cos’hai?», mi richiamò nonno.
  Mamma e papà portarono subito lo sguardo su di me per vedere che stava succedendo.
  «Niente», dissi frettolosa.
  «Non vorrai già andarti a rinchiudere?». Mamma era capace di indispormi con quattro parole in croce.
  «No, niente!». La guardai con un alone di rabbia che lei percepì all’istante.
  «Finisci l’antipasto». Ordinò.
  Purtroppo però quella sensazione continuava a persistere. Decisi di non farci caso e di prestare più attenzione alla conversazione. Parlavano del vantaggio che qualche grande evento in più avrebbe potuto portare alla città con un affluenza di turisti per più giorni. L’argomento non mi interessava affatto e quando la conversazione si spostò verso i cavilli burocratici celati dietro l’organizzazione di un nuovo festival mi persi nei miei pensieri.
  Mamma aveva ragione, volevo già andarmi a rinchiudere. Era diventata un abitudine per loro vedermi sgattaiolare, con la complicità del nonno, nello studio sulla torre. A volte non arrivavo nemmeno alla seconda portata che mi rifugiavo lì. Al riparo da occhi indiscreti a leggere una delle prime edizioni del nonno o semplicemente a aspettare che la festa arrivasse al termine. Fortunatamente il nonno era mio complice. Non apprezzava tutta quella mondanità a cui la nonna lo costringeva ma si piegava alla volontà della sua inarrestabile consorte. Però lasciava che la sua unica nipote non fosse costretta a dover stare impalata fino alle ore piccole per far divertire degli sconosciuti che anche lui non sopportava.
  «Signorina Elena!». Mi chiamò la moglie del sindaco.
  «».
  «Mio figlio più piccolo ha appena finito le medie e vorrebbe frequentare il liceo. Lei come si trova al Maffei?».
  Come accadeva sempre le risposte vennero date da mia madre.
  «Signora Corsi mia figlia ha frequentato i due anni del ginnasio nel collegio Leone XIII e sta per terminare l’ultimo anno del liceo al Maffei».
  Anche gli altri commensali si unirono al conversazione.
  «Secondo me l’istituto dovrebbe essere ristrutturato». Trillò la nonna fissando il sindaco.
  «A volte è un po’ stancante…». La mamma mi interruppe. «È sempre a studiare».
  «Probabilmente avrei preferito…». Mi interruppe di nuovo. «Il liceo è molto duro per uno studente».
  Capì che la mamma non voleva che la imbarazzassi con la verità. Al liceo era stato impossibile ambientarsi ed ero riuscita ad avvicinarmi solo con una ragazza.
  «È un liceo ottimo, suo figlio si troverà benissimo», dissi per chiudere il discorso.
  Mamma fece un piccolo respiro di sollievo e si affrettò a portare la conversazione di nuovo lontana da ciò che mi riguardava.
  Arrivò il risotto. La nonna aveva dato al menu un’inclinazione russa.
  «Elena», disse il nonno a mezza voce. «Non prendertela per la mamma». Sapeva che quando mia madre si comportava in quel modo infantile io mi irritavo parecchio.
  «Non preoccuparti».
  Di colpo ritornò quella sensazione. Ne ero sicura, mi osservavano.
  «Questo risotto è ottimo!». Esclamò il sindaco.
  La nonna saltellò sulla sedia contenta per l’approvazione del suo menù.
  In effetti le feste della nonna non avevano mai niente che non fosse perfetto. La location era stupenda in tutte le stagioni. Faceva addobbare la sala da pranzo e quella da ballo in modo diverso per ogni festa. I menù possibili erano provati per settimane e le combinazioni di ospiti ai tavoli erano studiate per non far languire le conversazione.
  Anche questa volta la nonna aveva realizzato un capolavoro di eleganza e raffinatezza. La festa occupava quasi tutti i locali del piano terra. L’entrata sulla sala rosa era stata adibita a sala da ballo. Dopo il primo corridoio nobile c’era la sala da pranzo e la sala spagnola era stata attrezzata per fungere da armadio con le due guardarobiere sempre pronte. La sala della musica era diventata il salotto per i fumatori e arredata con dei mobili che non avevo mai visto prima di allora. Ma la trasformazione più sbalorditiva la subirono la sala dei poeti e quella degli affreschi che erano diventate rispettivamente sala da gioco e zona cocktail bar. Quasi tutto il mobilio originale era stato portato via e sostituito con nuovi mobili ma la particolarità era che nonostante fossero in stile classico i colori dei legni e gli abbinamenti fra le stoffe o le pelli erano moderni. Un tocco di stravaganza che la nonna non aveva mai osato. In ogni angolo c’erano composizione floreali in perfetta tinta con tutto il resto. Persino le sedie che venivano usate per le feste erano cambiate, sostituite con un modello laccato bianco con pelle panna e intarsi in ottone. I centritavola erano una meraviglia e tra i fiori erano appuntate delle miniature in cristallo che grazie alle luci delle candele brillavano dando un tono da favola alla tavolata. Il castello era diventato quello di Cenerentola e l’atmosfera era davvero fiabesca.
  «Non ti piace?». La moglie del sindaco mi fece ritornare sul pianeta Terra.
  «Dovete scusarla», disse mia madre. «Spesso si perde fra le nuvole».
  Guardai il mio piatto ancora intatto e i loro vuoti già per oltre la metà.
  «Scusate». Presi la forchetta e osservai per un istante mia madre.
  Forse ci godeva. Le piaceva la mia goffaggine o il fatto che fossi poco socievole. Amava sbattere in faccia a tutti i nostri conoscenti o a tutti i nostri amici di famiglia quelle che riteneva fossero mie mancanze.
  «Smettila di giocherellare e mangia!», mi ordinò.
  Stufa la guardai in silenzio ma pronta a dare di matto. Una sola parola di più e gliele avrei cantate.
  «Elena, sù, balliamo».
  «Come?». Lo guardai sorpresa.
  Di solito il nonno mi chiedeva sempre di ballare durante le feste. Diciamo che era il suo modo di divertirsi, non eravamo portati per nulla ma lui ogni volta voleva ballare con me e mi costringeva a farlo.
  «D’accordo», dissi alzandomi dal tavolo. Gli altri commensali non si erano neanche accorti che stava per avvicinarsi una burrascosa pubblica lite di famiglia.
  «Andiamo allora». Mi prese per mano e mi trascinò a passo svelto lontano dal tavolo.
  Una volta entrati nel corridoio nobile per raggiungere la sala da ballo ci tenne a puntualizzare. «La mamma fa cosi solo perché…».
  «Perché altrimenti si annoierebbe», disse guardando diritto di fronte a me.
  «I genitori fanno sempre cosi».
  Girai la testa e lo fulminai con o sguardo. «Ogni festa la stessa cosa».
  «Non lo fa mica ad ogni festa». Il nonno provava a essere diplomatico ma era come difendere un cane rabbioso che aveva appena morso un bambino.
  «Si comporta così sempre», sbuffai sfinita. «Anche a casa fa lo stesso». Ripensai in un attimo a tutte le volte che mi era toccato sentirla lamentarsi di quanto fossi asociale o di quanto fossi imbranata e di mille altre cose che mi rimproverava alla prima occasione.
  «Qui è diverso però». Voleva proprio difenderla.
  «Vedi nonno credo che lei dica tutte queste cose o che parli per me perché si vergogna di come mi comporto o di quello che dico o di come la penso». Mi sentii il cuore battere più forte.
  «No Elena. Non pensare così, la mamma ti vuole bene».
  In fondo sapevo che quello che pensavo non era vero e che la mamma mi voleva bene ma era anche vero che si vergognava, in un qualche modo inconscio o forse semi-conscio, di me. Non era una teoria da accertare ma una già convalidata da anni. Non poteva essere altrimenti.
  Prima di entrare nella sala mi girai di scatto. Non c’era nessuno nel lungo corridoio eppure mi sentivo due occhi puntati addosso.
  «Non ti va più di ballare?», chiese il nonno vedendomi ferma sulla porta.
  «No», ritornai con lo sguardo su di lui. «È dall’inizio della serata che mi sento particolarmente osservata».
  Il nonno rise rumorosamente. «È colpa di quel vestito».
  Risi anch’io. «Lo ha scelto la mamma».
  Avevo trovato steso sul mio letto un elegante abitino con biancheria in tono e una piccola borsa. Appeso all’anta dell’armadio un trench nero era pronto a coprirmi in caso di freddo. Era qualcosa che accadeva ad ogni party o a ogni festa comandata, si materializzavano per la stanza questi oggetti e se non li indossavo erano guai. Almeno ero riuscita a convincerla a lasciarmi truccare e acconciare i capelli da me, ma anche per quelli trovavo indicazioni attaccate con un post-it sulla specchiera del bagno.
  «Ti sta davvero bene ma non puoi sperare di non attirare l’attenzione».
  Mi mise un po’ in imbarazzo ma ero felice di apparire carina ai suoi occhi.
  «Sù andiamo», disse prendendomi per mano.
  Nonostante la cena fosse in svolgimento c’erano diverse coppie che ballavano, avevo creduto che saremmo stati solo io ed il nonno.
  «Andiamo al centro». Sulle note del valzer il mio cavaliere preferito mi fece volteggiare.
  Rise al primo affondo del mio tacco sul suo piede destro. «Scusa», gli sussurrai.
  Il nonno era l’unico che non si lamentava degli attentati che gli facevo involontariamente mentre ballavamo, o meglio, mentre lui ballava.
  «Non preoccuparti». Si fermò e portò la mia mano più in alto sulla sua spalla poi contò ad alta voce “Uno, due e tre”.
  Era inutile ma si sforzava al massimo nonostante il mio corpo morto.
  Al secondo volteggio notai un ragazzo che mi stava fissando. Era vicino alla cabina del dj con un cocktail in mano.
  «Il ritmo: un, due e tre», mi ripeté il nonno.
  Distolsi lo sguardo e mi nascosi dietro la sua schiena. Mi chiedevo se fosse stato lui a darmi la sensazione di essere osservata durante tutta la serata.
  Feci un altro girò e fui costretta dal mio corpo a riportare lo sguardo su di lui che continuava a guardarmi.
  Continuai così per tutto il tempo. Ad ogni giro che il nonno mi faceva fare ritornavo al più presto a controllare se continuava a fissarmi. Quasi immediatamente immaginai che fosse il solito maleducato figlio di papà, ma nel suo sguardo non c’era un briciolo di arroganza. Lui mi guardava come nessun ragazzo mi aveva mai guardata, mi sentii ribollire il sangue, quello sguardo dolce ma al contempo deciso e intrigante mi faceva quasi piegare le ginocchia.
  Fortunatamente il nonno non si accorse della costante distrazione che era apparsa ad animare la mia serata.
  «Torniamo a tavola?».
  «No rimango un po’ qui». Il nonno mi guardò con il suo sguardo gentile nonostante sapesse che la mamma non avrebbe permesso il mio ritiro dalla cena così presto.
  «Ok, dieci minuti».
  Annuii senza rispondere.
  Mi sistemai il vestito e mi misi davanti all’entrata del corridoio da cui potevo vedere il lontananza il mio tavolo.
  Non appena nonno andò via quel ragazzo iniziò ad avvicinarsi a me. Il passo era sicuro e forte. Improvvisamente fui invasa dalla paura e per salvarmi da chissà che cosa iniziai a battere in ritirata. Lo sentii accelerare il passo e a metà del corridoio, «Ciao». Era lui che mi teneva la mano sinistra per fermare la mia maratona da vera fifona verso il mio tavolo.
  «Scusami, perdona la mia sfacciataggine, volevo invitarti a ballare».
  Iniziò a girarmi la testa, le guance presero a bruciarmi, sicuramente avevo un aspetto davvero ridicolo ai suoi occhi. Dovevo rispondergli: lui era lì che aspettava. «No... Sì, va bene», balbettai.
  Sorrise abbassando la sguardo.
  Eravamo sulla soglia della sala da pranzo ed ero terrorizzata che la mamma mi vedesse parlare con lui, fece finta di non accorgersi del mio nervosismo e mi riportò nella sala da ballo.
  Esitai al pensiero di fargli del male con i miei tacchi ma mi trascinò  al centro della pista, prese entrambe le mie mani e le portò piano dietro la sua nuca, sussultai quando le risenti sui fianchi. Il cervello smise letteralmente di funzionare, sentivo solo il cuore battermi nelle orecchie, le mani iniziarono a sudarmi e quando lui avvicino le labbra al mio orecchio e mi sussurrò. «Che maleducato che sono! Non ti ho chiesto nemmeno qual è il tuo nome»
  Con un filo di voce risposi. «Io sono Elena, non ci hanno mai presentati?». Mentre parlavo distolsi il mio sguardo dal suo, i sui occhi erano di un marrone intensissimo, erano cosi scuri che non riuscivo a scorgere le pupille.
  Questa mia reazione lo fece sorridere di nuovo e io non potei fare a meno di ritornare a fissarlo non appena rividi le sui labbra muoversi.
  «Se proprio vuoi saperlo, mi sono imbucato!», disse con una splendida voce melodiosa.
  «Ah!». Cercai di rimettere in moto il cervello, un imbucato alla festa di mia nonna!
  Dopo la mia reazione cosi sorpresa sottolineò, «Di solito non frequento ambienti del genere, ho fatto una scommessa con un mio amico e credo di aver vinto»
  «Che genere di scommessa?», gli chiesi incuriosita. Alzò lo sguardo e ricomparve quel sorriso tanto bello da inebetirmi completamente.
  «Non sai che questa festa è più blindata di un G20?».
  «Quindi la scommessa era riuscire ad imbucarsi?», chiesi, fissandolo negli occhi.
  «Si», disse trionfante, «Lui è rimasto fuori e io ballo un lento con la più bella ragazza di tutta la festa».
  Arrossii come un peperone «Non essere bugiardo», fu l’unica cosa che riuscii a dire.
  «Io non sono un bugiardo», dal tono che aveva sembrava lo avessi offeso.
  «È il vestito», dissi quasi senza fiato.
  «Non credo proprio», spiegò, parlando lentamente. «Ti avrei notata anche se avessi indossato un sacco della spazzatura».
  «Sarebbe stato impossibile non notarmi con un sacchetto di plastica al posto del mio abito da sera», dissi in tono sarcastico.
  «Ma come hai fatto ad entrare?».
  «Ho parcheggiato la macchina sulla parte posteriore e mi sono semplicemente mescolato alla folla all’ingresso». Mia nonna sarebbe saltata in aria se avesse saputo che era cosi facile entrare ad uno dei suoi esclusivissimi party.
  «E con i ragazzi all’ingresso?», gli chiesi incuriosita.
  «La security non mi ha degnato di uno sguardo ma il mio amico è stato pizzicato». Le sue labbra si allungarono in un perfetto sorriso e io fini per dimenticare la domanda che gli volevo fare.
  «Lui ha voluto aspettare che si disperdesse la folla ma uno dei gorilla l’ha beccato all’ingresso ovest e gli ha chiesto l’invito».
  «Poverino», dissi sincera. «E ora dov’è?».
  «Credo sia nella mia macchina a farsi un pisolino». Riapparve quel sorriso e per me fu la fine.
  Ballammo in silenzio altre due canzoni guardandoci reciprocamente. Non sapevo cosa dire, lui mi incantava con il suo sguardo, con il suo sorriso, persino il suo profumo mi faceva impazzire.
  All’improvviso pensai che quello non era il mio comportamento abituale, io non ero mai stata il tipo di ragazza che si faceva ammaliare da un bel ragazzo e che impazziva senza nemmeno sapere chi lui fosse. Non avevo idea di cosa fosse l’innamoramento al primo sguardo. Ma non potevo fare a meno di ballare con lui, non volevo che mi lasciasse, non volevo assolutamente che la musica finisse. Ero sua, persa nei suoi occhi, bramosa delle sue labbra e ansiosa di sentire, di nuovo, la sua voce.
  Poi d’un tratto gli chiesi: «Come ti chiami?».
Prima di rispondermi lui alzò lo sguardo oltre il mio volto e  corrugò la fronte.
  «Ci sono due signore in abito da sera che ci stanno fissando, credo che vogliano qualcosa da me».
Merda, lo avrebbero sbattuto fuori.
 «La più anziana indossa un abito blu e l’altra uno nero e bianco?», gli chiesi.
Speravo che dicesse di “No” ma invece. «Le conosci?».
  «Sono rispettivamente mia nonna e mia madre, che stanno facendo?».
  «Puoi vederlo con i tuoi occhi!», e iniziò a cullarmi per farmi cambiare visuale. «Fermo!», dissi con un tono di voce troppo alto. Temetti che mi avessero sentito anche loro.
  «Parlano fra di loro. Non vuoi farti vedere?», chiese lui pensieroso.
  «Se mi giro mia madre mi ordinerà di andare da lei e mia nonna ti farà sbattere fuori in un istante».
  Sembrava divertito dalle mie parole, probabilmente la sua famiglia non era composta da fredde arpie manipolatrici.
  «È un problema se balli con me?»
  Non sapevo come rispondere, non volevo fare la  figura dell’idiota proprio con lui.
  «È... una storia lunga», mi affrettai a dire.
  «Non sarai promessa o roba del genere».
  «Fidati, non è il momento giusto per scherzare».
  Feci un respiro profondo, poi iniziai a valutare tutte le possibilità che non l’avrebbero fatto cacciare. Chiedere alla nonna di farlo restare era fuori discussione, non avrebbe mai acconsentito ad un ragazzo che non era nella rosa dei prediletti di ballare con la sua nipotina. Convincere il nonno? Neanche lui avrebbe accettato, dato ce si trattava di un imbucato. Anche papà non mi avrebbe appoggiata. Mamma poi.
  «Sto per essere sbattuto fuori?», disse in tono divertito con le labbra ferme in un sorriso malizioso.
  Incrociai di nuovo il suo sguardo. Furono i suoi occhi a suggerirmi l’idea e parlai senza pensare.
  «Fai un giro della pista da ballo, poi sali la scala dopo la sala da pranzo, ti troverai un una stanza rettangolare. Entra nella porta sul lato destro, là c’è lo studio, aspettami lì!».
  Ero stupefatta della mia incredibile audacia, avevo appena dato un appuntamento ad uno sconosciuto in un posto in cui saremmo stati solo io e lui.
  Mi baciò sulla guancia e io rimasi inebetita al centro della pista mentre lui si allontanava, contai fino a cinque e mi voltai per andare verso le mie due civette.
  «Chi era quel ragazzo?», mi urlò mamma, piombandomi alle spalle.
  Non avevo avuto il tempo di escogitare una giusta bugia. Con quel bacetto mi aveva offuscato tutte le idee.
  «Cara, quel bellimbusto non era sulla lista degli invitati», ribatté nonna.
  Io aspettavo muta che parlassero loro. Questa era sempre la mia tecnica quando erano abbastanza vicine da sentire l’una quello che diceva l’altra, prima o poi una avrebbe detto qualcosa che non piaceva all’altra e la discussione da avere me come soggetto sarebbe passata a tutt’altro argomento. Purtroppo quella volta non fu cosi.
  «Lo conosci?».
  «Sai il suo nome?», sbraitò mamma.
  «Ti ha detto dove andava?».
  Nonna aveva un orribile sguardo accusatore, non sapevo come cavarmela.
  «Ti sei morsa la lingua signorinella?».
  «Non so come si chiama…», dissi a mezza voce.
  Non appena parlai mi resi conto che non ero riuscita a sapere nulla, non era riuscito nemmeno a dirmi il suo nome.
  «Mi ha chiesto di ballare». Poi il colpo di genio.
  «Non sapevo come dirgli di no e quando ha visto voi è corso via senza dire nulla».
  Sembravano soddisfatte delle mie bugie, di solito non ero cosi convincente.
   «Va bene, ora è meglio che torni al nostro tavolo», mi ammonì mamma.
  «Ti dispiace se vado nello studio del nonno, non vorrei che quel maleducato si ripresentasse», rimasero pensierose per un istante.
  «Va bene! Ma prima devi mangiare almeno una portata», disse nonna.
  Immediatamente mamma alzò un sopracciglio, ma prima che potesse replicare  mi diressi verso l’uscita della sala.
  In effetti stavo letteralmente morendo  di fame. Ma avevano appena portato la prima portata. Avrei dovuto aspettare prima di potermene andarmene. Arrivammo tutte e tre al tavolo quasi nello stesso momento e senza pensare avvicinai il vassoio del caviale e mi riempii di nuovo il piatto, poi un blinis dopo l’altro, non ero mai stata cosi golosa di quella robaccia.
  Aspettai con ansia l’arrivo del secondo portata, non vedevo l’ora di andare da lui. Ero letteralmente impazzita.
  La conversazione era tornata alla scuola e la moglie del sindaco mi ritirò in ballo.
  «Signorina che media ha lei?». Disse appoggiando i gomiti sul tavolo.
  «Ho la media del nove ma sono un vero disastro in matematica e fisica». Mi sistemai sulla sedia.
  «Quindi é un ottima studentessa». Aveva un tono un po’ troppo sorpreso, «Buon per lei signorina».
  «Veramente la matematica e la fisica non sono materie molto importanti per chi frequenta il liceo classico». Precisò il nonno.
  «Io ho il sette di media in quelle materie ma faccio molta più fatica ad apprenderle del latino o del greco».
  Spalmai il caviale ed imburrai per bene.
  «Ma crede che il liceo classico dia una buona preparazione?». A questa domanda sapevo non sarebbe stato necessario rispondere.
  «Sicuramente è la miglior scuola insieme al liceo scientifico per chi vuole intraprendere una carriera universitaria». La mamma dava quella risposta ogni volta che qualcuno mi poneva quella domanda. Era una routine per noi aspettare che fosse lei a rispondere quando ci venivano rivolte certe domande.
  Quando vidi arrivare i camerieri con delle strane portate mi alzai in piedi e andai verso la mamma.
  «Io vado», le sussurrai all’orecchio.
  La sua risposta fu un rimprovero, «Non è stato molto educato mangiare tutto quel caviale».
  «Scusate mia figlia  ma ha un po’ di mal di testa».
  La moglie del sindaco mi guardò perplessa. «Ci lascia?».
  Anche questa volta non era compito mio rispondere.
  «Andrà in una delle camere da letto del castello per riposarsi ma tornerà verso la fine della serata». Mi guardo in cerca di un segno di assenso ma stizzita e incapace di rispondergli mi allontanai lentamente.
  Dopo aver attraversato la sala da pranzo iniziai ad avere paura, sentivo le gambe molli. Forse era meglio tornare indietro e prendere il soprabito. Mi fermai nella sala da ballo ormai vuota. Cosa stavo facendo? Ero davvero cosi fifona! Mi rimisi diritta e mi aggiustai i cappelli per tenere le mani occupate. Davanti alla rampa di scale  il cuore iniziò a martellarmi nel petto. Le salii piano, ad ogni gradino facevo un respiro profondo. Nella sala felicia l’adrenalina mi faceva tremare le mani, tentavo di fermarle ma non ci riuscivo.
  Poi, mi ritrovai davanti alla porta dello studio.
  Fu a quel punto che esitai, volevo scappare via. Mille domande nacquero nella mia mente ma tutte chiedevano sostanzialmente la stessa cosa. “È lui?”
  Non avevo mai incontrato qualcuno che mi colpisse in quel modo dal primo momento. Infatuazioni ne avevo avute durante la mia vita, ma non ne ricordavo nessuna lontanamente paragonabile a questa.
  Sentire le farfalle nello stomaco era un sensazione nuova e impazientemente attesa. Ma ora che si era verificata era incredibilmente potente, paurosa e forte. Quando avevo letto dell’amore nei libri mi ero commossa e il cuore aveva galoppato con la fantasia per le storie lette, mi ero illusa che l’amore assomigliasse a quella sensazione.
  Non ero sicura che fosse amore ma mi rifiutai di credere che non lo fosse.
  Guardinga spinsi piano la pesante porta. Si aprì lentamente, accompagnata da un infinità di scricchiolii.